
Il corpo del pianoforte
Tutto ciò che ho fatto finora – i miei studi, le esperienze musicali, i chilometri percorsi da un paese all’altro – è stato principalmente un viaggio umano e non solo artistico. Suonare il pianoforte non è mai stato per me un atto isolato, tutt’altro. È sempre stato un modo per apprendere, educarmi e soprattutto accogliere il mondo e le persone nel modo più naturale possibile abbattendo preconcetti o sovrastrutture educative e sociali.
Quando suono, non vedo solo uno strumento davanti a me ma vedo un’estensione del mio corpo, della mia mente, del mio modo di pensare che è sempre in continua evoluzione e tutto ciò che ho appreso nella vita – la disciplina, la consapevolezza, la capacità di ascoltare e sentire – si riflette in ogni nota, in ogni pensiero, in ogni frase musicale e c’è una cosa che mi accompagna sempre e che considero il cuore di ogni mia esecuzione: la connessione tra mente e corpo.
Questa attenzione al corpo e alla disciplina non viene solo dalla musica o da quando ho iniziato a studiare pianoforte all’età di 9 anni, tardi rispetto a molti musicisti che già in tenera età iniziano a muovere i loro passi e le loro mani su di uno strumento musicale. Nasce dal fatto che sono cresciuto per una parte della mia vita in una palestra di karate. Mio padre era un Sensei e la disciplina era la sua colonna portante. Diceva sempre che il Karate gli aveva salvato la vita essendo cresciuto in una famiglia diciamo complessa. Fin da piccolo ricordo che osservavo i movimenti precisi, lenti ma potenti, ritmici e fluidi degli allievi di karate ed ero affascinato dalle lezioni con le cinture nere durante le quali mio padre scandiva in modo marziale i comandi. Ricordo che stavo al bordo del tatami e ascoltavo il suono dei kimono che strappavano l’aria all’unisono come un’ensemble diretto da Pierre Boulez durante un’esecuzione della sua opera Le Marteau sans maître.
Un altro ricordo che porto sempre con me è il modo in cui mio padre insegnava ai suoi allievi. Non era solo un maestro di tecnica; era un maestro di consapevolezza. Li invitava a sentire ogni movimento, a non forzare mai, ma a lasciar fluire l’energia in modo naturale. Ho cercato, nel tempo, di traslare questo principio al pianoforte e quando il corpo si muove in modo naturale la musica prende vita. La connessione tra mente e corpo è anche una forma di libertà e troppo spesso vedo pianisti che cercano di superare un ostacolo tecnico irrigidendosi, come se la forza potesse risolvere il problema. Ma è esattamente il contrario: la rigidità blocca sempre, mentre cercare di rilassarsi libera la naturalezza del movimento e di conseguenza del suono. Pensa a una corrente d’acqua: non la puoi forzare, ma puoi lasciarti trasportare da essa. Suonare il pianoforte è lo stesso. Il gesto deve essere naturale, fluido, come un fiume che scorre senza ostacoli.
Uno degli esercizi che ho sviluppato è proprio questo: fermarmi, rilassare il corpo e ascoltare. Prima di iniziare a studiare, lascio cadere le braccia lungo i fianchi, scuoto delicatamente le mani e cerco di percepire ogni minima tensione. Immagino che dei fili tirino le mie dita verso il pavimento e che tutto il sangue del mio corpo defluisca sulla punta. Improvvisamente le braccia e la mani diventano calde e pesanti ed è come se avessi fatto già degli esercizi al pianoforte mentre ho solo disteso le braccia lungo il corpo, ma con consapevolezza ed ascolto. Poi appoggio le mani sulla tastiera senza suonare e visualizzo il dito che abbassa il tasta solo utilizzando il peso naturale della mano. Questo semplice esercizio mi aiuta a ristabilire la connessione tra il mio corpo e lo strumento ed è come se improvvisamente tutto andasse al suo posto e fossi pronto per suonare.
La propriocezione – la capacità di percepire il proprio corpo nello spazio – è una delle chiavi per un’esecuzione libera e naturale. È qualcosa che ho affinato nel tempo, ascoltando non solo la musica, ma anche come mi sentivo durante le ore di studio e le performance dal vivo. È una forma di dialogo silenzioso che mi permette di capire quando una spalla è troppo rigida, quando un polso si muove in modo innaturale, o quando il respiro si interrompe senza motivo.
E qui ritorna in gioco la disciplina. Per me, disciplina non significa rigidità, ma attenzione costante, prendersi cura della vita, avere rispetto di se stessi e di quello che ci circonda. Significa essere presenti, vivere ogni gesto, ogni nota, con intenzione. La disciplina non è un limite, ma una strada verso la libertà.
Se mi sento teso, insicuro o ansioso, il mio corpo lo mostra subito e le mani tremano, il respiro si spezza, le spalle si sollevano ed è allora che mi fermo, respiro e ascolto. Questa pratica, che ho imparato negli anni, mi ha aiutato nelle fasi di difficoltà.
Suonare il pianoforte non è solo un atto tecnico o artistico. È un modo di vivere, di esprimere chi siamo. E tutto inizia da qui: dalla connessione tra mente e corpo, dalla consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Questa, per me, è la vera essenza della musica.
Per molto tempo, ho pensato che migliorare significasse semplicemente studiare di più, ripetere fino allo sfinimento. Ma a volte, la chiave per crescere e migliorare non è fare di più, ma fare diversamente. Trovare una nuova via e ho capito che i problemi tecnici, musicali o interpretativi non sono ostacoli, ma opportunità. Ostinarsi a risolverli con lo stesso metodo che non funziona è come cercare di aprire una porta bloccata spingendola sempre più forte. Cercare di fare un passo indietro e guardare quella porta da un’altra angolazione può essere la chiave.
Dobbiamo non dare mai nulla per scontato. In musica, questo significa “ascoltare” non solo quello che suoniamo, ma anche quello che non suoniamo. Significa lasciare spazio al silenzio, permettere che l’errore diventi un momento creativo e accettare che il pianoforte, con i suoi e nostri limiti, possa sorprenderci.
Mi è capitato di lottare con un passaggi di Chopin, un arpeggio ad esempio, che non riuscivo a rendere fluido. Ogni volta che lo provavo, le mani si irrigidivano, il suono diventava duro, innaturale. Dopo giorni di frustrazione, mi sono fermato e ho deciso di cambiare completamente approccio. Ho iniziato a suonarlo con la mano sinistra invece della destra, a rallentare fino quasi a spezzare il ritmo, a cantare ogni nota mentre suonavo. Quello che stavo facendo non aveva nulla a che vedere con l’esecuzione finale del pezzo, ma mi ha permesso di sentire il passaggio in modo nuovo, di capire dove stava il problema. E quando sono tornato a suonarlo normalmente, è stato come se le mie mani avessero trovato da sole la soluzione. Questo ci insegna che non esiste un’unica strada per arrivare a destinazione. Possiamo esplorare, deviare, sbagliare, e ogni deviazione ci porta comunque più vicini alla meta.
- Andrea